CITAZIONI

2013-12-02 15.13.59
Edificio de la Bolsa, Santiago de Chile. Stile Neoclassico.

 

Pietro, l’architettura, nata per rispondere a necessità primarie quali la difesa dai pericoli esterni e dai rigori climatici, riparo ed involucro protettivo per il corpo dell’uomo con la stessa funzione di un ‘abito’ vero e proprio, secondo Gottfried Semper, architetto e teorico tedesco dell’ottocento, si sarebbe poi sviluppata come architettura ‘abitata’, con etimo appunto nella parola ‘abito’, grazie alla pratica della tessitura, tutta femminile, attraverso la quale veniva costruito l’abito per il corpo. Da lì avrebbero infatti preso spunto le costruzioni arcaiche fatte di strutture intrecciate (tende e capanne), materiali ‘tessuti’ sull’esempio di quanto facevano le donne della tribù.
Al di là della curiosità della teoria, stupisce già a metà dell’ottocento questo approccio antropologico allo studio dell’architettura, che evolve con l’uomo sulla base delle sue esigenze sociali.

In realtà, “ci dice la grammatica che il latino habitare è un verbo frequentativo (o intensivo) di habere (avere). Esso significa, innanzitutto, avere continuamente o ripetutamente. “Abitare” rimanda quindi all’avere con continuità. L’abitante, allora, “ha” il luogo in cui abita…” (Sebastiano Ghisu, “Essere, abitare, costruire, vedere”), e lo “ha” tanto più quanto più lo personalizza, lo rende unico e rispondente all’idea che ha di sé …..”
Anche secondo questa derivazione, l’idea di abitare è strettamente legata all’abitante/possessore, alla sua vita, al suo tempo, alle sue esigenze peculiari e transitorie. In questo senso l’architettura è un ‘bene di consumo’, che muta, o dovrebbe mutare, a seconda delle necessità e delle richieste. Come gli abiti.

Partendo da Walter Benjamin (‘Parigi capitale del XIX secolo ‘ appunti incompiuti del 1925: “Moda e architettura appartengono all’oscurità dell’attimo vissuto, alla coscienza onirica del collettivo ….. architetture, moda, anzi persino il tempo atmosferico, sono, all’interno del collettivo, ciò che i processi organici, i sintomi della malattia o della salute, sono all’interno dell’individuo”), Patrizia Calefato, che si interessa di sociolinguistica, scrive: “C’è un profondo intreccio – poetico, semiotico, testuale – tra la moda e la città, un intreccio che si avviluppa sul nucleo della “strada”, per riprendere l’immagine di Benjamin, intesa come il luogo dove il gusto sperimenta l’atmosfera del tempo, come zona di incrocio tra culture e tensioni, come spazio fisico e metaforico entro cui la città acquisisce il suo senso in virtù di pratiche sociali condivise. Dalla “strada”, concepita in questo modo, è possibile guardare ai flussi che moda e architettura veicolano e moltiplicano.“ 
E poi, basta pensare agli edifici e agli abiti del barocco, del rinascimento, del neoclassicismo per rilevare a colpo d’occhio profonde analogie tra moda e architettura. Più o meno consapevolmente, la moda si è caratterizzata nel tempo in senso concettuale, assecondando sempre di più la ‘fluidità’ (passami il termine abusato) del corpo anziché l’esibizione di esteriorità, per giungere oggi ad una disinvolta ibridazione di forme e materiali grazie alla quale “moda e architettura si integrano come stili di vita e forme di estetizzazione del quotidiano.”
E non è un caso che famose archistar firmino i punti vendita di famosi marchi di fashion.

Vilma Torselli

 

In fondo è tutta una questione di forme. Forme che rivestono e che sono vestite. Prima della guerra dei negozi rimessi a nuovo nelle strade del lusso, prima delle mostre che ne descrivono le possibili contaminazioni, prima degli abiti che sembrano materiali resistenti al tempo, esiste un nesso naturale e originario tra l’architettura e la moda. Come un bellissimo peccato originale: la moda è architettura quando dà una struttura ai gusti e alle tendenze, le cattura e, come abile architetto, dà loro forma, visibilità. L’architettura è moda perché vetrina del tempo che passa, delle “mode” che investono spazi e persone.
Moda da un lato e architettura dall’altro, dunque, intercettano il cambiamento delle città e lo mostrano: l’una lo fa «abitando corpi», l’altra vestendo i luoghi. L’aveva capito all’inizio del Novecento Walter Benjamin, quando scriveva che le due «appartengono all’oscurità dell’attimo vissuto, alla coscienza onirica del collettivo». 
Quale modo migliore per capire gli anni Sessanta se non quello di osservare gli abiti e i palazzi del tempo? La tensione al cambiamento è presente ugualmente sia nelle minigonne sia nelle facciate di palazzi che sembrano oggetti di design. Gli occhiali da sole “spaziali” e i finestroni colorati esprimono la stessa pulsione radicale. 
La prima volta che Rem Koolhaas presentò i progetti per i negozi americani di Prada, l’architetto Vittorio Gregotti, uno dei padri della ricostruzione italiana, liquidò i lavori del collega olandese chiamandoli “scenografie”. 
Il giorno dell’apertura del negozio di SoHo (575 Broadway), questo ha smesso di essere un flagship ed è diventato l’«Epicentro Prada»: un luogo dove l’estetica dello shopping esce dalla dimensione della compra-vendita e arriva all’arte, alla musica, alla letteratura e, perché no, all’intrattenimento.
Sempre nella Grande Mela, la torre disegnata dal francese Christian de Portzamparc segna, come un enorme trofeo cittadino, il quartier generale Louis Vuitton.
E se l’inglese John Pawson firma dal 1995 i flagship di Calvin Klein, agli inizi del 2000 lo stilista Issey Miyake ha chiesto a Frank Gehry di rendere «meno noioso» il suo showroom newyorkese. Il risultato è un “tornado”, che nell’immaginazione sconfinata dell’autore del Guggenheim di Bilbao ha significato piazzare una struttura in titanio sullo showroom. Re Giorgio ha distribuito, invece, tra diversi archistar i suoi lavori: il Teatro Giorgio Armani a Milano è del giapponese Tadao Ando mentre per gli empori di Hong Kong, Shanghai e Tokyo la firma è quella dei coniugi per eccellenza dell’architettura italiana, Massimiliano e Doriana Fuksas. Proprio in Giappone si sta consumando la “guerra fredda” delle grandi griffe, il cui obiettivo è uno solo: avere l’architettura “più cool” nel quartiere “più cool” di Tokyo. Altro che “Gangs of New York”! Quello tra Ginza, Omotesando e Nippongi è un conflitto talmente aspro da far sembrare innocui i “Five Points” del film di Martin Scorsese. Palazzi che arrivano anche a quindici piani di altezza e che contengono di tutto, dal bar alla sauna. E chi contiene più cose, vince. Troviamo così in fila come soldatini – rigorosamente in vetro (per specchiarsi) e con ampi spazi (per sfilare) – la Ginza Tower di Armani, la Maison Hermés di Renzo Piano, l’headquarter Louis Vuitton firmato Toyo Ito, i 3mila metri quadri disegnati da Herzog & De Meuron per Prada, il designer Bill Sofield per Gucci, ancora Toyo Ito per Tod’s, Peter Marino per Chanel e così via. Tanto da far sorgere dubbi sul perché un giapponese debba preferire l’uno all’altro: il marchio o lo spazio che lo contiene?
Nel 2006 una mostra al Centre for Architecture di New York dal titolo «The Fashion of Architecture: Constructing the Architecture of Fashion» metteva in luce come fosse simile il lavoro di certi architetti – dall’olandese Winka Dubbeldam al giapponese Shigeru Ban, passando per l’angloirachena Zaha Hadid – e quello di certi stilisti (da Yohji Yamamoto a Martin Margiela). Faceva vedere come l’architettura utilizzasse da sempre tecniche rubate alla sartoria (il drappeggio o la stiratura), e così la moda alla statica o alla scienza delle costruzioni. L’esposizione illustrava come la forma spirale andasse bene per disegnare una gonna e una scala e che gli edifici potessero essere gonfiabili come reggiseni.
Da Georg Simmel a Jean Baudrillard, da Ortega y Gasset a Paul Virilio, in tanti hanno individuato la vera essenza della moda, il suo essere non prodotto della società bensì produttore di società. Ma forse anche il lungimirante sociologo Georg Simmel (che già alla fine dell’Ottocento parlava di moda come «sistema di coesione sociale») sarebbe impallidito davanti agli stilisti assurti al ruolo di mecenati del XXI secolo.
Dal Sole-24 ore del 12 febbraio 2007


 

L’anima culturale di Scicli (Ragusa), 26.000 abitanti, è il movimento «Vitaliano Brancati», fondato negli anni Cinquanta dai giovani comunisti, il gruppo che promosse la visita degli intellettuali a Chiafura. Dopo un lungo periodo di decadenza, l’artista Piero Guccione (leader degli artisti del Gruppo di Scicli), nel 1980, lo rifondò. Gli anziani e i nuovi giovani si danno appuntamento nella sede di via Francesco Mormina Penna, nel centro storico della città. Fiancheggiata da palazzi nobiliari in stile neoclassico dell’800 e del ‘900, che si alternano alle chiese tardobarocche in pietra dorata, la via è stata dichiarata dall’Unesco, nel 2002, patrimonio dell’Umanità. L’attività del «Brancati» è molteplice: dai convegni ai dibattiti, alle mostre d’arte. Per tutti, resta indimenticabile la prima, promossa da Guccione, nel 1981, dedicata al «carrubo, l’albero che muore». 

Allora, entriamo nel vivo della storia, scoprendo che, sul finire degli anni 5o, la comunità degli aggrottati di Scicli diventò un caso, al centro di una denuncia civile, di una rivolta politica (in verità, non provocata dagli interessati), che culminò, nel 1959, con la visita a Chiafura di un gruppo di intellettuali comunisti. Nomi di prestigio: Renato Guttuso, Carlo Levi, Pier Paolo Pasolini, Antonello Trombadori, Paolo Alatri, Maria Antonietta Macciocchi. La spedizione fu promossa e sollecitata dalla sezione di Scicli del Partito comunista, dall’Amministrazione comunale (rossa) e dai giovani del «Vitaliano Brancati». Lo scopo? Preparare il riscatto civile dei chiafurari. Definiti da Ermanno Rea, in un articolo pubblicato da «Vie Nuove», «i cavernicoli dell’era cosmica». D resoconto più efficace di quella visita («Piombati da Roma a Catania, da Catania a Scicli…») lo si deve alle parole di Pasolini. 

Marisa Fumagalli

 


 

«Moda e architettura appartengono all’oscurità dell’attimo vissuto, alla coscienza onirica del collettivo“.Questa nota frase di Walter Benjamin mostra come moda e architettura, ciascuna con il proprio linguaggio, influenzino in modo analogo la nostra percezione dell’essere comunità: la moda “abita i corpi”, l’architettura “veste i luoghi”. La stretta correlazione tra le due arti nella cultura contemporanea è stata oggetto di indagine in una famosa mostra dal titolo The Fashion of Architecture: Constructing the Architecture of Fashion presso il Centre for Architecture dell’AIA New York Chapter; ma le reciproche influenze datano senza dubbio alle prime esperienze umane di costruzione del corpo in quanto fenomeno sociale. Ciò è reso evidente, per esempio, dal fatto che la moda altera sempre il corpo, soprattutto femminile, perfino quando la silhouette è all’apparenza semplice, come nella moda greco-romana, o in quella neoclassica o nel Primo Impero.

Uno dei momenti di maggior alterazione del corpo è il Settecento: nel lessico della moda del tempo il busto, che altera le forme femminili, è chiamato corps, a dimostrazione del fatto che il corpo della donna non esiste, nella sua percezione sociale, se non in virtù delle sottostrutture vestimentarie che lo plasmano. Non stupisce dunque che proprio in questo periodo la riflessione teorica sulla necessità di edificare il corpo come fosse un’architettura è particolarmente acuta, come dimostra il libro di William Hogarth,The Analysis of Beauty, che si sforza di ricondurre in astratto l’essenza della bellezza a forme geometriche. L’invenzione stessa del panier, o quanto meno la sua diffusione, è ricondotta da cronache settecentesche all’imitazione delle forme della cupola di St. Paul dell’architetto Christopher Wren; così come, nell’Ottocento, la crinolina ha un punto di riferimento nelle forme architettoniche del Crystal Palace, eretto per ospitare la celebre Esposizione Universale del 1851.

Le suggestioni che la moda trae dall’architettura non si limitano solo alle forme, ma attengono anche ai singoli elementi decorativi: il gusto ornamentale passa facilmente dall’architettura alla moda, e dalla moda all’architettura. Se ne ha un esempio a tutti noto nei merletti cinquecenteschi veneziani, quali quelli documentati nella Corona delle nobili et virtuose donne di Vecellio (1592), che è agevole mettere in relazione con le architetture tardogotiche della città lagunare; siffatti merletti tornano poi in auge nel revival culturale noto come eclettismo alla fine dell’Ottocento. Peraltro, proprio l’eclettismo dimostra comele influenze dell’architettura sulla moda travalichino la contemporaneità, giacché suggestioni vengono riprese anche da modelli storicizzati: un esempio su tutti è la scoperta della tomba di Tutankhamon, nei primi anni Venti, che influenzò molto lo stile vestimentario decò.

L’innovazione tecnologica della modernità consente oggi anche ulteriori elementi di interferenza tra i due ambiti: nella moda si assiste talora all’uso di materiali specifici della costruzione architettonica (pvc, led, metalli), come si osserva nella produzione di Hussein Chalayan.»

Pubblicato da: Redazione in News ed EventiPugliaSud News ed Eventi 

 

La moda veste e struttura i corpi abitandoli, quanto fa l’architettura con gli edifici. Vi è infatti una stretta relazione tra moda ed architettura, le case sono come la terza pelle dell’uomo perché ne riflettono i gusti e la personalità quanto l’abito.

Questa relazione così forte è sempre esistita, andando ad analizzare una colonna greca non vi è una forte analogia con le tuniche drappeggiate delle donne e le decorazioni architettoniche non rispecchiano la stessa decorazione nella bordura delle vesti? Fin dalla civiltà Sumera la decorazione era in stretto legame con l’architettura ed il costume, tutto era in armonia in connubio dall’uso del colore, all’uso delle forme. Come trascurare l’omologia tra le vesti barocche e le forme sinuose di cui il Barocco fu protagonista.

Adesso che non esiste più l’ornamento nei nostri abiti, non esiste ornamento in architettura. La moda influenza dunque l’architettura quanto l’architettura influenza la moda. 

Nelle città di oggi vediamo,  progetti di archistar che danno un segno forte e scenografico allo skyline dei luoghi, la moda è diventatat la vera protagonista della forma. Soggetti a mode spesso perdono la loro caratteristica stilistica di un tempo, divenendo architetture cosmopolite in quanto lo stesso stile come nella moda si può trovare a New york o a Pechino, a Londra o a  Buenos Aires. in un passato non troppo lontano, quando si viaggiava si vedevano paesaggi e città che erano uniche nella loro territorialità, così come le persone vestivano un loro proprio stile che rifletteva la cultura della nazione di cui faceva parte. Tutto è diventato internazionale la moda come l’architettura e l’arte hanno perso il loro segno territoriale per divenire liquidi assoggettati alla globalizzazione ed alle sue leggi.

Cambia così il modo di progettare, divenendo interattivo, si realizzano edifici gonfiabili, portabili, camaleontici, il Prada Transformer e lo Chanel Mobile art Pavillon. metalli pieghevoli,  membrane di plastiche flessibili e di vetri, così come nella moda tutto è in continua trasformazione per adeguarsi al frenetico gioco dei tempi. Moda e architettura, utilizzano  forme comuni, la spirale, per realizzare strutture della costruzione o dell’abbigliamento, divenendo secondo esigenze del progettista una scala o dello stilista una gonna. L’importanza della forma racchiude il significato archetipico da cui la forme nasce ed in cui diviene rivestimento o vestito.

Carmia De Ninnis

Steccaggio
Profilatura struttura base
immag per off
Juta
immag per 3
Steccaggio struttura base

 

imm per offic
Corpetto

 

2014-09-14 23.02.31

Pubblicato da officinacreativamodaarch

Fashion and costume designer